mercoledì 3 dicembre 2008

Uguale a lui


C’è una piccola ruga che solca proprio l’angolo che va dalla mia palpebra inferiore allo zigomo. E’ una linea che non mi preoccupa, perché mi rende simpatica. Sbuca fuori solo quando sorrido di cuore. Un giorno sarà più marcata e so che si piegherà verso il basso, proseguendo almeno fino a metà guancia. Quella ruga mi dimostra che sono tale e quale mio padre. Stesse onde strette sulla testa, stesse ciglia piegate. Le labbra no, quelle provengono da una zia morta nel dopoguerra di TBC, ma il sorriso monolaterale quando ascolto le cazzate altrui, quello, è proprio uguale.Stessa camminata robotica, nonostante il mio genere femminile ne attenui un po’ la durezza. Ho guardato con sospetto le mani tozze e le gambe corte di mio padre per tutta la vita. Mi rimandavano l’immagine di un campagnolo che tanto sarebbe piaciuta al caro Pasolini, ma non a me. Con un corpo che bada alla sostanza, che si nutre quando ha fame, che beve quando ha sete e che dorme fino a quando ne ha voglia sopportando poi con incredibile energia sforzi fisici e climi crudeli. Senza complicazioni ulteriori, senza il cervello di mezzo. Ne posso immaginare, con un certo fastidio, persino la sessualità: marcata, senza fronzoli, terragna. Io no. Io ho trascorso una trentina d’anni sperando che Darwin avesse torto, salvo a ritrovarmi con i polpacci bisognosi di un tacco per essere slanciati, e le mani rotonde da bambina, anche adesso che non lo sono più.Uguale a lui.Non ci parliamo mai. Se ci incrociamo per le scale, nessuno dei due alza gli occhi, e tutti e due preghiamo perché l’altro saluti per prima e tolga entrambi dall’imbarazzo. L’ultimo contatto fisico risale a più di dieci anni fa, in un momento di dolore disperato, la sua testa bianca stretta tra le mie mani. Appena un minuto dopo, ancora distanza. Di un’altra volta ricordo un braccio agganciato al suo per pochi secondi, il tempo di attraversare la navata centrale di una chiesa. Ma in quel caso la vera preoccupazione era evitare lo strascico con i piedi per non ruzzolare davanti a duecento invitati.Un giorno mio padre non sarà più. E’ questo che penso da un po’.Credo che per recuperare non ci sia più tempo.So già che, dopo, guardarsi allo specchio sarà terribile. Rivedrò la sua faccia, travestita da donna.Chissà se avrò mai delle rughe solo mie.

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lunedì 17 novembre 2008

Odio gormitico


Mia madre diceva sempre che sarei cresciuta violenta e mascolina per colpa del Grande Mazinga. Pure di Jeeg Robot d’acciaio e di Goldrake, a dire il vero. Ma Mazinga era in vetta a tutti gli incubi materni. Era la fine degli anni Settanta e dividevo la mia devozione televisiva tra quel vigoroso robot e l’orfana Candy Candy. Tutti e due vinsero le loro battaglie di vita, io ebbi regolarmente le mestruazioni, e oggi non mi ritrovo seduta davanti ad uno psicologo per turbe sessuali.Almeno, non per quelle.Solo che la storia si ripete, ed è questo che mi rode di più.Mio figlio è un estimatore dei Gormiti, pupazzetti plasticosi poco più alti di un pollice che migliaia di piccoli collezionano per il puro gusto di possederli. A suscitare tanto interesse non è la serie tv (postuma rispetto al successo di vendite) né chissà quali salvifici messaggi per il pianeta Terra. Dietro il successo di questi mostriciattoli c’è invece il brivido dell’acquisto dal tabaccaio, la bustina che si apre e il Gormita che sbuca fuori, senza una vera storia alle spalle. Che ne so, un Generale nero contro cui lottare, una pettoruta Venus con cui fidanzarsi o un qualunque professor Shiba imbottigliato in un tubo catodico da consultare in caso di necessità. Mi ritrovo a sospirare, a scaricare centinaia di puntate di tutti gli eroi dei miei tempi che ottengono un discreto successo presso la mia prole. Ma il mio sdegno gormitico rimane intatto.Prendiamo quello che mio figlio preferisce in assoluto: il Sommo luminescente. Lo possiede di tutte le misure. Ne esiste pure una versione gigante, e parlante, e ricorda vagamente gli storici robot giapponesi. Solo con i pettorali meno scolpiti. Tanto a che gli servono, già il Gormita medio non perde il suo tempo a combattere, figuriamoci i vip.In cambio i Gormiti sfasciano gli equilibri matrimoniali. Piccoli come sono arrivano dovunque, e se il figlio è uno di quelli che trascorre ancora sul lettone le sue notti, allora capita di ritrovarseli sotto le terga. Rare volte, quando il loro padroncino non c’è e i genitori si ricordano di avere una vita sessuale, allora interviene Obscurio. Provate voi a farlo mentre un tizio con le corna da toro e le ali da pipistrello vi guarda di traverso. E poi fatemi sapere come va a finire.

domenica 19 ottobre 2008

Filetto Flambè


Certe volte capita, e capita tutto in un giorno.Capita che al mattino chiedi alla tua metà di comprare le cotolette già impanate dal macellaio. Perché poi, a pranzo, devi fare presto. E capita che invece lui tiri fuori dalla busta della spesa due filetti che ti toccherà fiammeggiare, dopo un’ accurata marinatura in cognac e spezie.Capita che poi, più tardi, ti venga in mente di chiedere alla tua collaboratrice una scheda di percentuali e grafici, perché poi devi sviluppare un certo lavoro, che magari sia bene informato e bello anche da vedere.E capita che invece lei ti rifili un copia ed incolla da un sito americano, e pure mal tradotto, dove nessun congiuntivo sta al suo posto, e dove i grafici- dimenticati in un angolo del foglio- si riducono all’advertising di Google: “cerchi sesso facile?”, “cerchi un lavoro?”.Capita, anche, e capita nel pomeriggio, che in farmacia ti rifilino un cachet per il mal di testa a posto di un clistere. E che poi tu torni indietro per sentirti dire che sì, quella pillola provoca degli effetti secondari che- guarda che culo- fanno al caso tuo. E che non vale la pena usare-prodotti- invasivi-per un problema-così banale.Capita che tu ti rivolga a tuo padre per la prima volta dopo sette mesi, e che lui scambi un messaggio di riconciliazione per una richiesta di aiuto. E che dunque rifili ai tuoi figli cinquanta euro per comprarsi quaderni e grembiulino.Capita che di notte sogni il tuo fratellone che manca dalla tua vita da troppi anni. E che, tra un abbraccio e l’altro, ti ricordi di fargli la domanda fatidica. Capita. Capita che gli chiedi, con molta cautela: dai, a me lo puoi dire, cosa c’è “dopo”? Eh? Dimmelo, dai…E che lui di colpo ti volti le spalle, e ti risponda sadico:“Un bel filetto flambé!E che altro sennò, sorellina?” .
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Camera numero 11


I buddisti dicono che la sfortuna viene dalla bocca e ci rovina, mentre la fortuna viene dal cuore e ci rende degni di rispetto.Non saprei cosa possa mai aver detto di tanto malvagio il mio amico Lele. Non mi ricordo che una sola cattiveria sia uscita dalle sue labbra, almeno da quando lo conosco. Il rispetto, quello, se l’è guadagnato sul campo: è intelligente, carismatico, gran lavoratore, sempre pieno di belle idee.La mia amica Simona qualche giorno fa ha aggiunto che era pure “beddu comu ‘u suli”.Già, era. Qualche giorno fa sono stato a trovare Lele al reparto malati terminali e di bello restano solo gli occhi verdi.L’ospedale sembra un albergo a quattro stelle. C’è pure una tisaneria. Si chiama proprio così: è una stanza con lo spazio lettura, una mini biblioteca e un tavolo dove i pazienti, se lo vogliono, possono accogliere amici e parenti senza per forza riceverli in stanza. Certo, non si può ordinare un Martini con l’oliva, ma un infuso di tiglio sì.Lele mi ha accolto con un bel sorriso e abbiamo parlato delle solite cose: politica, letture, cucina, cazzate. Era disteso, alle sue spalle un armamentario tecnologico. Altre volte sono andata a trovarlo. Altri ospedali, altri reparti, ma la musica, dopo la visita, è sempre quella e suona in filodiffusione nel mio cervello.Come una colonna sonora ripetitiva, ma non sgradevole.Pensate che sia il Requiem di Mozart?Sbagliato.Somiglia invece all’Estate di Vivaldi, o giù di lì.E’ sempre la stessa storia. Appena lascio Lele dismetto il sorriso forzato. Poi soffoco una lacrima, sento il rossore che mi sale in faccia, e il tutto dura circa un minuto. Quando il sole, o il vento, o qualunque altra traccia atmosferica mi sfiora il viso, attacca il mio Vivaldi cerebrale.Io sono viva, mi dico. Sono viva.Infine mi sento un verme. Ma anche quello dura poco.Una prece. Per me.
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L'erotica di Onfray? In alto a sinistra


Del ciuffo volitivo di Michel Onfray si è accorto anche Pierluigi Panza, che sull’ultimo Style del Corriere della Sera intervista la star del pensiero individualista libertario.Onfray si aggiudica una bellissima copertina (foto di profilo, sguardo al più o meno infinito, come si conviene ad un vero filosofo) e risponde con fascino e saggia pacatezza alle domande. Si definisce un “libertino” ma nel senso etimologico del termine, ossia un “liberato”, e dunque non un donnaiolo. Definisce gli uomini di potere dei bambini patetici, smonta i filosofi accademici, e vede le relazioni amorose in “luce post cristiana libera dagli obblighi di associare sessualità, fedeltà, matrimonio, procreazione e coabitazione”. La sua massima di vita? , gli chiede Panza. “Crearsi libertà”, risponde lui, citando Nietzsche.Davvero non male, dico a me stessa.Poi mi ricordo che fine ha fatto “Teoria del corpo amoroso” nella mia libreria. E’ nel reparto “cestinati di rispetto”. Sta in alto a sinistra, insieme ad altri saggi che ho comprato con un entusiasmo quantomeno pari alla delusione provata a fine lettura.Mi spiego. Onfray può interessare per la sua erotica decolpevolizzata. Non è poco nella nostra era dove si pensa di essere splendidamente laici sol perché si guarda con interesse ai rapporti flessibili, per poi scadere ogni giorno nella trappola del buonismo di coppia.Solo che a forza di ricondurre il desiderio a pura fisiologia, come vorrebbe Democrito, la passione a “pure energie misurabili”, a forza di ridurre il desiderio dell’altro a pura brama eiaculatoria, Onfray finisce per compromettersi.Nella sua “Teoria” il filosofo costruisce una rete di paragoni zoologici. Dalla sogliola, pesce alla perenne ricerca della sua metà- che brutta cosa, ci dice Onfray, roba da platonici precristiani- al porco epicureo che invece copula senza colpa, passando per lo sfortunato elefante monogamo e dalla jena, quella si, bestia attivissima, e approdando all’istrice celibe e all’elogio della sterilità.Sappiamo che non sempre il desiderio si placa dentro la coppia, e forse è vero che spesso il ritorno ad un sano individualismo aiuta a rivalutare l’altro. Ma a forza di desacralizzare, Onfray dimentica che esiste una bella differenza tra l’onanista e l’innamorato. Onfray critica i feroci dualismi imposti dal cristianesimo (o angeli o peccatori), ma cade anche lui nella stessa trappola imboccando una strada parallela e speculare che non offre via d’uscita se non nella solitudine.Stupisce anche che si professi un anti misogino. Uno che sostituisce l’Afrodite alata con la Venere fallica, delle signore ha capito ben poco.In quanto alle sogliole dalle mie parti costano un tanto al chilo. Fritte sono buonissime. Altro che pesci da buttare via.


Pubblicato il 3/07/08 su http://gerypa.blogspot.com

Le cosacce non vogliono pensieri


Proprio bello non è, sarebbe una forzatura definirlo così. Il fascino, poi, non sa neppure cosa sia. Belloccio forse sì, diciamo uno che poteva piacere alle nostre mamme. Uno con il sedere alto e sodo, un bel sorriso, lineamenti regolari, spalle larghe, capelli ondulati anni Cinquanta, labbra carnose. Uno che “fa sangue”.Solo che Matteo dovrebbe tenere sempre la bocca chiusa perché ignora molte, troppe regole. Quelle della lingua italiana, prima di tutto, ma anche quelle del bon ton, del vestire, dello stare a tavola (una volta al ristorante ha fatto la scarpetta nel mio piatto), del trattare con le signore. Meglio non fargli mai domande di storia, perché Matteo è convinto che la guerra fredda sia finita con la sconfitta di Waterloo, in mezzo alla neve, dove poi morì Napoleone.Matteo è un inguaribile tamarro che ripete la parola “sesso” come fosse un mantra, come fosse la soluzione a tutti i mali. Non è di cervello fino, è ingenuo, forse un po’ bambino. E’un brav’uomo però, e certe volte con lui riesci a farti quattro risate. Fa sempre la spesa all’Auchan e vista la sua insana passione per le donne, sua moglie dev’essere una santa.Giovanna, no. Giovanna è un’altra cosa.E’decisamente una bella donna. Decisamente colta, decisamente ricca, decisamente griffata, decisamente intelligente, bon ton e forse un pochino antipatica. Ossuta ma leggiadra, ironica ma anche acida, se serve. La spesa gliela fa la domestica, mauriziana. Suo marito è un professionista, di grido. Giovanna non direbbe mai “sesso”, tutt’al più “cosacce”. Nient’altro da aggiungere.Matteo e Giovanna lavorano nello stesso ufficio, seppure con mansioni diverse. Sono come l’alfa e l’omega, il Viagra e la tisana Pompadour. Certo, hanno qualcosa in comune. Entrambi sono sposati. Entrambi non si sognerebbero neppure di andare ad una festicciola aziendale senza il coniuge, perché “non sta bene”. Entrambi si punzecchiano di continuo, si odiano cordialmente da anni, e non è raro sentire lui sparlare delle ossessive manie di lei, e lei ridacchiare dei congiuntivi mancati di lui.Ebbene, signori, da poco ho scoperto che i due si muovono in sintonia.Come si dice dalle vostre parti? Fiancheggiano, furoreggiano. Insomma, scopano.Non so da quanto tempo, ma è così. Ne ho le prove.Per me, che conosco bene entrambi, è come avere scoperto che esistono gli extraterrestri, che gli asini volano o che Babbo Natale è in realtà un pedofilo incallito.E’ lei che mi stupisce di più. Mentre Matteo non ha mai nascosto di apprezzare oltremodo il gentil sesso in tutte le sue pregevoli varianti, Giovanna è una snob senza pari, una che nega il saluto a chiunque non abbia almeno una laurea e una degustazione di vini alla settimana. E di Matteo continua a parlare malissimo davanti la macchinetta del caffè.Ho riflettuto e credo che la soluzione al dilemma sia semplice semplice.Eh no, non siate romantici, non dite che “al cuore non si comanda”, per favore.Credo che il meccanismo oscuro sia molto, molto più banale.La soluzione sta in un detto napoletano che dice ‘O cazzo, non vuole pensieri.E questo Giovanna lo avrà letto in uno dei suoi bei libri in primissima edizione. Letto, sottoscritto e approvato.Alla faccia del radical chic, delle buone maniere e dei congiuntivi. O no?


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Elogio della pralina


Lo so che parlare di cioccolato va di moda.Sarà stata colpa del film con la Binoche e Jonnhy Depp, e di quei fiumi di crema scura che scivolavano dappertutto.Solo che io il cioccolato lo adoro davvero e, quel che è peggio, lo divoro.Di più: lo sogno, lo studio, lo cucino. Anzi, lo modello.Perché, diciamolo chiaramente, esiste forse un piacere dei sensi più forte che manipolare una materia tiepida e burrosa, mescolarla ad aromi, congiungerla ad altre identità nobili (le nocciole, i chicchi di caffè, la frutta secca, la frutta fresca) sentirne gli effluvi intensi ma mai troppo dolciastri, e poi affidarla alla saggezza dello stampo o all’improvvisazione delle dita?Sì, esiste, so a cosa state pensando. Ma il distacco tra i due brividi è breve, molto breve. Almeno per me.Sappiate pure che v’è una corrispondenza sottile tra la nostra vita e quella di una pralina.Non ridete. Sto per rivelarvi un segreto.Prendete il tartufo. E’ un cioccolatino facile ma di classe. Ha un cuore morbido che richiama una nota di rhum (fragile, mai impertinente, se fosse musica un si bemolle) su una base di cioccolato nero, il più nero che si può. I francesi la chiamano ganache. La copertura invece è decisa: fondente, croccante. Importantissimo che crocchi, altrimenti significa che il cioccolato non è stato ben temperato, ossia non lavorato alla giusta temperatura. E questo ucciderebbe il tartufo. Sarebbe come commettere un peccato grave a cui, ahimè, siamo oramai abituati: la pigrizia, l’accidiosa abitudine alle vie brevi, agli odiosi quattro salti in padella, alle discussioni via sms, al sesso veloce e sfuggente.E’ la dedizione, il segreto: più la copertura si lavora, con la lama, sulla base di marmo, ai gradi giusti, più il guscio risulterà vigoroso, degno custode di un ripieno saporito. Solidità e tenerezza, disciplina e riposo.Poi c’è il Boero. Pensate sia impossibile farlo in casa? Sorrido, superba. Perché si può. Basta scegliere bene liquore e amarena, con la stessa saggezza di una paziente massaia. I Boero riempiono la bocca e ti lasciano appena la voglia di un altro Boero. Ma poi di null’altro, soprattutto, di nessun’ altra pralina. E’ il senso di soddisfazione e di sazietà che la vita ancora ci sa offrire alla fine di una giornata in cui si è goduto, sofferto, gridato, sospirato e consegnato se stessi al tempo sbruffone che passa.Infine, il classico, intramontabile quadrato. Un pezzo di tavoletta, senza tanti fronzoli.Profumo, lucentezza, morso, crac, croc. E poi scioglievolezza, e poi saliva nera, grumo di piacere, deglutizione, sorriso. Ritorno alla materia tiepida e burrosa dell’inizio.Perché polvere eri e polvere tornerai.Cameriere, cioccolato per tutti. Offre Verbena.




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Trilogia del sesso perduto/3


Milko prende il sole con oculatezza. Dice che potrebbe rovinargli la pelle e per questo usa una cremina for men filtro quindici, ogni giorno. Milko veste solo camicie sagomate, stile Seventy, si depila il torace e adora indossare i braccialetti. Non è forse un maestro di stile, ma è decisamente un gran bell’uomo. Ha pure una moglie attraente e al suo passaggio le ragazzine si voltano a guardarlo. Sembra un tronista. Solo, meno abbronzato.Milko fa un lavoro serio, che richiede prestanza fisica. E per via del mio, di lavoro, mi tocca stargli accanto per molte ore al giorno. Tra noi non c’è mai stato un feeling particolare. In quattro anni che ci conosciamo mai una chiacchierata vera, solo due battute, ogni tanto.Meno di un mese fa, riaccompagnandomi in auto al parcheggio, Milko mi ha esposto la tesi del “trombamico” invitandomi a metterla in pratica. Con lui.Funziona così: se dovessi avere voglia di fare sesso disimpegnato, gioioso, discreto e di ottimo livello, non mi resterebbe che chiamarlo. Milko sostiene di essere stato, e di essere ancora, il rifugio di parecchie amiche, anche di amiche della moglie. Anche la moglie, a sua volta, era una sua “trombamica”, poi trasformatasi in altro, per via del destino cinico e baro.Della teoria del “trombamico” – che circola anche sul web- secondo Milko, esistono due varianti di base: quella che prevede un’attività coordinata e continuativa, gestita tramite sms, e quella saltuaria, occasionale, ma altrettanto soddisfacente.Parlava e parlava Milko (io stavo seduta nel sedile posteriore dell’auto), e descriveva certe sue performance consumate in camere ad ore, studiava le mie reazioni sbirciando dallo specchietto.Io ascoltavo con piglio interessato, come quando memorizzo per bene le prescrizioni del ginecologo. Così lui ha continuato, spiegando che mi potevo anche rifiutare, lì per lì, ma che l’offerta era da considerarsi a lungo termine. “Considerala valida, anche per molto tempo se ritieni. Pure se non ci dovessimo vedere per anni. Se avrai bisogno di un trombamico, io sarò lì”.Silenziosa pausa di riflessione, sua.“Devi solo fare una piccola verifica, se però passa troppo tempo…”, aggiunge.A questo punto si fa serio, un po’ imbarazzato. Sono troppo curiosa, rompo il silenzio.“E quale sarebbe, di grazia?”, gli chiedo.“E’ semplice”, si rianima lui, finalmente certo di essere stato seguito e compreso, nonostante il soliloquio dell’ultimo quarto d’ora.“Basta che ti guardi allo specchio. Se tutto sarà come adesso, dalla testa in giù, allora l’offerta sarà sempre valida”.Altra pausa. Altra frase impacciata, espressione quasi drammatica sul viso ben idratato: “Sai, la carne flaccida, non mi piace”.Su “carne flaccida” non ho retto. E ho reagito come sempre in questi casi: con una risata crassa, dirompente, persino mascolina, che Milko deve avere interpretato a modo suo. Così ha fatto di più. A qualche metro di distanza dal parcheggio ha rallentato. “Facciamo un gioco”, mi dice, mentre mi mostra un sorriso a trentadue denti, bianchissimo. “Adesso scendi, ma poco prima di chiudere la portiera mi guardi negli occhi e mi fai un cenno con la testa: un si, o un no”.Esco dall’auto lentamente. Giù la prima gamba, giù la seconda, sorrido, lo guardo, e faccio oscillare la mia testolina da destra verso sinistra. Poi da sinistra verso destra.“E perché?”, mi fa lui, deluso.“La cellulite ha già fatto il suo corso”, rispondo io, becera.Mi volto e ancheggio con maestria. Perché so che lui sta guardando. Proprio lì.




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Trilogia del sesso perduto/2 Fanculo i vent'anni


In comune non avevamo nulla, a parte i vent’anni. Lui muscoloso e atletico, io lenta e pigra. Lui affascinato dai superuomini di destra, io dalle letture gramsciane. Lui sempre pronto alle lunghe dormite, io alle nottate sui libri, in vista di appassionanti sfide intellettuali che non arrivarono mai.Eppure io e Luca all’Università eravamo inseparabili, infallibili, bravi direi. Laddove si affacciava un eccesso dell’uno era l’altro a temperarlo. I colleghi di corso ci chiamavano la “fantastica coppia”.Io e Luca eravamo molto attratti l’una dall’altra, ma questo era un tasto tabù.Colpa mia.Ero io quella fidanzatissima, ed ero io ad avere costruito un muro tra noi due così alto e spesso, che sarebbe stato impossibile demolirlo per entrambi.Ci fu un pomeriggio nella sua cameretta da studente fuorisede. In due anni fu quella l’unica volta che ci misi piede. Facevo sempre in modo che i nostri tete a tete di studio avvenissero in luoghi rigorosamente neutri, e i suoi maldestri tentativi di organizzare un appuntamento tra quattro mura fallivano sempre. Mi costava, naturalmente. I suoi occhi verdi e il suo sorriso solare erano un attentato quotidiano.I miei vent’anni erano votati alla disciplina. Non lo sapevo a quei tempi, ma ero il perfetto prototipo di Verbena fascista, nonostante mi piccassi di stare dalla parte opposta: fedeltà al puro ideale civico, fedeltà al fidanzato decennale, fedeltà al dovere e allo studio. Sesso sì e volentieri, ma disciplinato dall’ascesi della coppia perfetta.Cosa successe in quella cameretta stretta stretta e zeppa di adesivi del Fuan?Successe che lui ci provò. E che io mi scansai recitando fastidio.Lui tentò di farfugliare qualcosa di sincero, ed io lo interruppi con una risatina isterica.Avevo il cuore in gola e una pericolosa voglia di lasciarmi andare. Ne uscii indenne. L’onore era salvo, ancora una volta.Un giorno, però, ci portò in aula una ragazza. Ingoiai amaro e non feci una piega. Luca divenne un altro Luca. Niente risate infinite, niente giochi, niente cineclub. Solo studio, libretto, voti, medie…Ci laureammo. Ci furono le feste e ci furono gli arrivederci, che in verità erano degli addii.Rividi Luca al funerale militare di una persona a me cara. Faceva parte del picchetto d’onore. Mi vide piangere ma non mi salutò. Gli telefonai. Fu cordiale, ma nulla di più. Tentai un recupero tenero ma mi gelò con una frase di circostanza che voleva dire molte cose.Ci rimasi male. E persino in quel caso pensai che l’onore e la fedeltà, avevano avuto la meglio.Passarono gli anni. Finii per mollare il mio ingessatissimo fidanzato ad un passo dalle nozze.Ogni tanto, quando ripasso da quell’Università, penso alla Verbena che ero.E a quei meravigliosi occhi verdi che quel pomeriggio ho allontanato dai miei.Fanculo l’onore. Fanculo i vent’anni.


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venerdì 4 luglio 2008

Trilogia del sesso perduto/1

Riporto una singolare "trilogia" a mia firma già ospitata dal blog di Gery Palazzotto qualche mese fa.
Questa è la prima parte. Titolo originale: "Semi di zucca".


“Date voce alla convinzione latente in voi, ed essa prenderà significato universale”. Ralph W. Emerson


Mia nonna Pina abitava al nono piano di un palazzaccio bianco, costruito a ridosso di una piazzetta sconcia e malfamata. Di bello, quel condominio, aveva solo il colore delle persiane: blu cobalto. Il condominio è ancora lì, e lì dentro è come se ci fossi rimasta io, che ho sempre cinque anni, che saltello ancora sui tavoli dei vicini di casa e mi esibisco in “Piange il telefono” professandomi più brava della Guadagno.Ogni tanto me la sogno, quella casa che odorava di ragù. Pure il terrazzino sogno, piccolo e impicciato dai miei giochi e dalle piantine.E dalle zucche. Mia nonna le adorava e da brava massaia non buttava niente, e seccava i semi al sole.E allora, direte voi?Allora c’è che l’altra notte, insonne come spesso capita, ho compreso cosa significa rimuovere un ricordo per almeno trentadue, lunghissimi anni.Ho ricordato di un pomeriggio, probabilmente estivo, sul terrazzino. Io con la gonnellina e le mutande in bella vista e i semi di zucca, non so per quale motivo, adagiati su un telo. Il telo stava per terra. E io stavo sopra il telo a giocare con i semini. Sarà stata la fase dell’ invidia del pene, fatto è che un pugno di semi li andai a nascondere proprio dentro, o per i più colti dentro. Là dove mia nonna ebbe cura di svuotare il tutto poco dopo, sbraitando per una buona mezz’ora. Ma non è questo che ho rimosso. L’episodio dei semi nel corso della mia vita è riemerso di tanto in tanto. Quello che ho seppellito nei meandri del mio inconscio è stato il seguito, di cui oggi decido di liberarmi consegnandolo sotto forma di byte a tutto l’universo mondo.Signori, la fantasia dei bimbi è perversa. Aveva ragione Freud. Nel mio cervellino la verità si confuse con la fiction. Subito dopo l’episodio credetti che quei semi, in realtà, li avessi prodotto io. Che li avesse, insomma, figliati il mio fiore segreto. Credetti che la mia porta d’accesso ai misteri della natura sfornasse di norma semi di zucca, e che anzi tutti gli accessi femminili fossero ovviamente destinati a produrre semi, che poi tutte le brave nonne del mondo dovevano seccare al sole. Quest'idea non si smosse dal mio cervello per almeno quattro anni. Ne sono certa, adesso vi dico il perché. I miei non erano, quello che si dice, genitori socievoli. Soltanto a nove anni mi portarono a vedere la mia prima festa patronale con la Santuzza, e tutti gli annessi e i connessi. Non furono i fuochi d’artificio ad incidere nei miei ricordi di bimba. No. Furono i banchetti di calia e simenza. La simenza, soprattutto. Fu allora che compresi la vera finalità della mia (ancora) acerba identità femminina. Sfornare semi su semi, che forse le nonne raccoglievano in pudico silenzio al momento del cambio biancheria, per poi consegnarli ai terrazzini ed infine al pubblico palato, opportunamente salati.Trovai la cosa un po’ antigienica ma in fondo non disdicevole, e comunque naturale. Oggi direi biologica.Ogni tanto mi chiedo perché mia figlia, che ha sette anni, sa perfettamente da dove vengono i semi di zucca e, credo, anche da dove vengono i bambini. Poi mi chiedo perché la piccola Verbena che sono stata abbia creduto per così tanto tempo ad una teoria così stramba. Rispondetemi voi, magari. Ma non infierite.

sabato 28 giugno 2008

Ritorno al crespo


Mia figlia crede che lo stacco coscia delle Winx sia alla portata di tutte le donne e che da grande anche lei avrà gambe che somigliano al bastone porta abiti della mia camera da letto.
Niente di strano. Noi che eravamo bimbe negli anni Settanta pensavamo invece che i capelli della Barbie fossero l’emblema di una femminilità imprescindibile. Era una bella soddisfazione per le ragazzine di razza nordica che della chioma eterea si facevano un gran vanto. Una tragedia per noi terrone.
Una tragedia pure per la piccola Verbena che aveva capelli corvini, crespi e drammaticamente ricci.
A cinque come a dodici anni immaginavo me stessa bionda e avvolta in una setosa matassa fluida di capelli; un enorme gomitolo senza intoppi, senza inutili ghirigori.
Peccato che lo specchio mi rimandasse un’immagine opposta e che mia madre peggiorasse la situazione tagliandomi i capelli almeno ogni cinque o sei settimane. Il risultato? Penoso. Cespuglio corto, spesso e opaco, radicato su una testa che di setoso non aveva nulla. Appena i ricci accennavano a crescere sbucava una forbice – da taglio e cucito- a fare il suo dovere. Per anni sono sembrata un esserino senza sesso, se non fosse stato per il sorriso e le cotte decisamente orientate verso i maschietti.
Poi sono arrivati gli Ottanta, e dunque l’adolescenza con i suoi turbamenti e i suoi riti, e i ricci sono cresciuti, lunghissimi.
“Alla Eleonora Brigliadori”, ci tenevamo a dire noi crespe.
Con i Novanta accadde l’inaspettato. Non era il colore a dominare ma la chioma liscia. Lunga o corta, scura o chiara non importava. Doveva essere lucida e forte, quello sì, pure scalata e leggera. Una testa dove non poter nascondere eventuali grilli, come tutte le teste delle brave ragazze, oramai donne.
Arrivo al dunque.
Oggi è il mio ultimo giorno di un lavoro serio che per anni ha richiesto un’immagine professional.
E’ un lavoro che lascio io. Nessun licenziamento, nessun dramma aziendale, nessun litigio. Solo una scelta che sapevo di dover fare, prima o poi.
Così, da domani torno alle origini. Basterà un semplice shampoo e un phon. I ricci torneranno a galla come se nulla fosse successo. Forse un po’ sfibrati, magari senza i vortici definiti di una volta. Ma sarà solo questione di tempo e ondeggeranno come prima.
Mia figlia non mi riconoscerà subito perché la mamma così non l’ha mai vista.
Ritorno al crespo e , se ci riesco, pure alle borse senza griffe.
Le donne che leggono mi capiranno. Gli uomini un po’ meno, forse. Ma chissenefrega.
(fonte foto fabioinvernizzi.com)