domenica 19 ottobre 2008

Filetto Flambè


Certe volte capita, e capita tutto in un giorno.Capita che al mattino chiedi alla tua metà di comprare le cotolette già impanate dal macellaio. Perché poi, a pranzo, devi fare presto. E capita che invece lui tiri fuori dalla busta della spesa due filetti che ti toccherà fiammeggiare, dopo un’ accurata marinatura in cognac e spezie.Capita che poi, più tardi, ti venga in mente di chiedere alla tua collaboratrice una scheda di percentuali e grafici, perché poi devi sviluppare un certo lavoro, che magari sia bene informato e bello anche da vedere.E capita che invece lei ti rifili un copia ed incolla da un sito americano, e pure mal tradotto, dove nessun congiuntivo sta al suo posto, e dove i grafici- dimenticati in un angolo del foglio- si riducono all’advertising di Google: “cerchi sesso facile?”, “cerchi un lavoro?”.Capita, anche, e capita nel pomeriggio, che in farmacia ti rifilino un cachet per il mal di testa a posto di un clistere. E che poi tu torni indietro per sentirti dire che sì, quella pillola provoca degli effetti secondari che- guarda che culo- fanno al caso tuo. E che non vale la pena usare-prodotti- invasivi-per un problema-così banale.Capita che tu ti rivolga a tuo padre per la prima volta dopo sette mesi, e che lui scambi un messaggio di riconciliazione per una richiesta di aiuto. E che dunque rifili ai tuoi figli cinquanta euro per comprarsi quaderni e grembiulino.Capita che di notte sogni il tuo fratellone che manca dalla tua vita da troppi anni. E che, tra un abbraccio e l’altro, ti ricordi di fargli la domanda fatidica. Capita. Capita che gli chiedi, con molta cautela: dai, a me lo puoi dire, cosa c’è “dopo”? Eh? Dimmelo, dai…E che lui di colpo ti volti le spalle, e ti risponda sadico:“Un bel filetto flambé!E che altro sennò, sorellina?” .
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Camera numero 11


I buddisti dicono che la sfortuna viene dalla bocca e ci rovina, mentre la fortuna viene dal cuore e ci rende degni di rispetto.Non saprei cosa possa mai aver detto di tanto malvagio il mio amico Lele. Non mi ricordo che una sola cattiveria sia uscita dalle sue labbra, almeno da quando lo conosco. Il rispetto, quello, se l’è guadagnato sul campo: è intelligente, carismatico, gran lavoratore, sempre pieno di belle idee.La mia amica Simona qualche giorno fa ha aggiunto che era pure “beddu comu ‘u suli”.Già, era. Qualche giorno fa sono stato a trovare Lele al reparto malati terminali e di bello restano solo gli occhi verdi.L’ospedale sembra un albergo a quattro stelle. C’è pure una tisaneria. Si chiama proprio così: è una stanza con lo spazio lettura, una mini biblioteca e un tavolo dove i pazienti, se lo vogliono, possono accogliere amici e parenti senza per forza riceverli in stanza. Certo, non si può ordinare un Martini con l’oliva, ma un infuso di tiglio sì.Lele mi ha accolto con un bel sorriso e abbiamo parlato delle solite cose: politica, letture, cucina, cazzate. Era disteso, alle sue spalle un armamentario tecnologico. Altre volte sono andata a trovarlo. Altri ospedali, altri reparti, ma la musica, dopo la visita, è sempre quella e suona in filodiffusione nel mio cervello.Come una colonna sonora ripetitiva, ma non sgradevole.Pensate che sia il Requiem di Mozart?Sbagliato.Somiglia invece all’Estate di Vivaldi, o giù di lì.E’ sempre la stessa storia. Appena lascio Lele dismetto il sorriso forzato. Poi soffoco una lacrima, sento il rossore che mi sale in faccia, e il tutto dura circa un minuto. Quando il sole, o il vento, o qualunque altra traccia atmosferica mi sfiora il viso, attacca il mio Vivaldi cerebrale.Io sono viva, mi dico. Sono viva.Infine mi sento un verme. Ma anche quello dura poco.Una prece. Per me.
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L'erotica di Onfray? In alto a sinistra


Del ciuffo volitivo di Michel Onfray si è accorto anche Pierluigi Panza, che sull’ultimo Style del Corriere della Sera intervista la star del pensiero individualista libertario.Onfray si aggiudica una bellissima copertina (foto di profilo, sguardo al più o meno infinito, come si conviene ad un vero filosofo) e risponde con fascino e saggia pacatezza alle domande. Si definisce un “libertino” ma nel senso etimologico del termine, ossia un “liberato”, e dunque non un donnaiolo. Definisce gli uomini di potere dei bambini patetici, smonta i filosofi accademici, e vede le relazioni amorose in “luce post cristiana libera dagli obblighi di associare sessualità, fedeltà, matrimonio, procreazione e coabitazione”. La sua massima di vita? , gli chiede Panza. “Crearsi libertà”, risponde lui, citando Nietzsche.Davvero non male, dico a me stessa.Poi mi ricordo che fine ha fatto “Teoria del corpo amoroso” nella mia libreria. E’ nel reparto “cestinati di rispetto”. Sta in alto a sinistra, insieme ad altri saggi che ho comprato con un entusiasmo quantomeno pari alla delusione provata a fine lettura.Mi spiego. Onfray può interessare per la sua erotica decolpevolizzata. Non è poco nella nostra era dove si pensa di essere splendidamente laici sol perché si guarda con interesse ai rapporti flessibili, per poi scadere ogni giorno nella trappola del buonismo di coppia.Solo che a forza di ricondurre il desiderio a pura fisiologia, come vorrebbe Democrito, la passione a “pure energie misurabili”, a forza di ridurre il desiderio dell’altro a pura brama eiaculatoria, Onfray finisce per compromettersi.Nella sua “Teoria” il filosofo costruisce una rete di paragoni zoologici. Dalla sogliola, pesce alla perenne ricerca della sua metà- che brutta cosa, ci dice Onfray, roba da platonici precristiani- al porco epicureo che invece copula senza colpa, passando per lo sfortunato elefante monogamo e dalla jena, quella si, bestia attivissima, e approdando all’istrice celibe e all’elogio della sterilità.Sappiamo che non sempre il desiderio si placa dentro la coppia, e forse è vero che spesso il ritorno ad un sano individualismo aiuta a rivalutare l’altro. Ma a forza di desacralizzare, Onfray dimentica che esiste una bella differenza tra l’onanista e l’innamorato. Onfray critica i feroci dualismi imposti dal cristianesimo (o angeli o peccatori), ma cade anche lui nella stessa trappola imboccando una strada parallela e speculare che non offre via d’uscita se non nella solitudine.Stupisce anche che si professi un anti misogino. Uno che sostituisce l’Afrodite alata con la Venere fallica, delle signore ha capito ben poco.In quanto alle sogliole dalle mie parti costano un tanto al chilo. Fritte sono buonissime. Altro che pesci da buttare via.


Pubblicato il 3/07/08 su http://gerypa.blogspot.com

Le cosacce non vogliono pensieri


Proprio bello non è, sarebbe una forzatura definirlo così. Il fascino, poi, non sa neppure cosa sia. Belloccio forse sì, diciamo uno che poteva piacere alle nostre mamme. Uno con il sedere alto e sodo, un bel sorriso, lineamenti regolari, spalle larghe, capelli ondulati anni Cinquanta, labbra carnose. Uno che “fa sangue”.Solo che Matteo dovrebbe tenere sempre la bocca chiusa perché ignora molte, troppe regole. Quelle della lingua italiana, prima di tutto, ma anche quelle del bon ton, del vestire, dello stare a tavola (una volta al ristorante ha fatto la scarpetta nel mio piatto), del trattare con le signore. Meglio non fargli mai domande di storia, perché Matteo è convinto che la guerra fredda sia finita con la sconfitta di Waterloo, in mezzo alla neve, dove poi morì Napoleone.Matteo è un inguaribile tamarro che ripete la parola “sesso” come fosse un mantra, come fosse la soluzione a tutti i mali. Non è di cervello fino, è ingenuo, forse un po’ bambino. E’un brav’uomo però, e certe volte con lui riesci a farti quattro risate. Fa sempre la spesa all’Auchan e vista la sua insana passione per le donne, sua moglie dev’essere una santa.Giovanna, no. Giovanna è un’altra cosa.E’decisamente una bella donna. Decisamente colta, decisamente ricca, decisamente griffata, decisamente intelligente, bon ton e forse un pochino antipatica. Ossuta ma leggiadra, ironica ma anche acida, se serve. La spesa gliela fa la domestica, mauriziana. Suo marito è un professionista, di grido. Giovanna non direbbe mai “sesso”, tutt’al più “cosacce”. Nient’altro da aggiungere.Matteo e Giovanna lavorano nello stesso ufficio, seppure con mansioni diverse. Sono come l’alfa e l’omega, il Viagra e la tisana Pompadour. Certo, hanno qualcosa in comune. Entrambi sono sposati. Entrambi non si sognerebbero neppure di andare ad una festicciola aziendale senza il coniuge, perché “non sta bene”. Entrambi si punzecchiano di continuo, si odiano cordialmente da anni, e non è raro sentire lui sparlare delle ossessive manie di lei, e lei ridacchiare dei congiuntivi mancati di lui.Ebbene, signori, da poco ho scoperto che i due si muovono in sintonia.Come si dice dalle vostre parti? Fiancheggiano, furoreggiano. Insomma, scopano.Non so da quanto tempo, ma è così. Ne ho le prove.Per me, che conosco bene entrambi, è come avere scoperto che esistono gli extraterrestri, che gli asini volano o che Babbo Natale è in realtà un pedofilo incallito.E’ lei che mi stupisce di più. Mentre Matteo non ha mai nascosto di apprezzare oltremodo il gentil sesso in tutte le sue pregevoli varianti, Giovanna è una snob senza pari, una che nega il saluto a chiunque non abbia almeno una laurea e una degustazione di vini alla settimana. E di Matteo continua a parlare malissimo davanti la macchinetta del caffè.Ho riflettuto e credo che la soluzione al dilemma sia semplice semplice.Eh no, non siate romantici, non dite che “al cuore non si comanda”, per favore.Credo che il meccanismo oscuro sia molto, molto più banale.La soluzione sta in un detto napoletano che dice ‘O cazzo, non vuole pensieri.E questo Giovanna lo avrà letto in uno dei suoi bei libri in primissima edizione. Letto, sottoscritto e approvato.Alla faccia del radical chic, delle buone maniere e dei congiuntivi. O no?


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Elogio della pralina


Lo so che parlare di cioccolato va di moda.Sarà stata colpa del film con la Binoche e Jonnhy Depp, e di quei fiumi di crema scura che scivolavano dappertutto.Solo che io il cioccolato lo adoro davvero e, quel che è peggio, lo divoro.Di più: lo sogno, lo studio, lo cucino. Anzi, lo modello.Perché, diciamolo chiaramente, esiste forse un piacere dei sensi più forte che manipolare una materia tiepida e burrosa, mescolarla ad aromi, congiungerla ad altre identità nobili (le nocciole, i chicchi di caffè, la frutta secca, la frutta fresca) sentirne gli effluvi intensi ma mai troppo dolciastri, e poi affidarla alla saggezza dello stampo o all’improvvisazione delle dita?Sì, esiste, so a cosa state pensando. Ma il distacco tra i due brividi è breve, molto breve. Almeno per me.Sappiate pure che v’è una corrispondenza sottile tra la nostra vita e quella di una pralina.Non ridete. Sto per rivelarvi un segreto.Prendete il tartufo. E’ un cioccolatino facile ma di classe. Ha un cuore morbido che richiama una nota di rhum (fragile, mai impertinente, se fosse musica un si bemolle) su una base di cioccolato nero, il più nero che si può. I francesi la chiamano ganache. La copertura invece è decisa: fondente, croccante. Importantissimo che crocchi, altrimenti significa che il cioccolato non è stato ben temperato, ossia non lavorato alla giusta temperatura. E questo ucciderebbe il tartufo. Sarebbe come commettere un peccato grave a cui, ahimè, siamo oramai abituati: la pigrizia, l’accidiosa abitudine alle vie brevi, agli odiosi quattro salti in padella, alle discussioni via sms, al sesso veloce e sfuggente.E’ la dedizione, il segreto: più la copertura si lavora, con la lama, sulla base di marmo, ai gradi giusti, più il guscio risulterà vigoroso, degno custode di un ripieno saporito. Solidità e tenerezza, disciplina e riposo.Poi c’è il Boero. Pensate sia impossibile farlo in casa? Sorrido, superba. Perché si può. Basta scegliere bene liquore e amarena, con la stessa saggezza di una paziente massaia. I Boero riempiono la bocca e ti lasciano appena la voglia di un altro Boero. Ma poi di null’altro, soprattutto, di nessun’ altra pralina. E’ il senso di soddisfazione e di sazietà che la vita ancora ci sa offrire alla fine di una giornata in cui si è goduto, sofferto, gridato, sospirato e consegnato se stessi al tempo sbruffone che passa.Infine, il classico, intramontabile quadrato. Un pezzo di tavoletta, senza tanti fronzoli.Profumo, lucentezza, morso, crac, croc. E poi scioglievolezza, e poi saliva nera, grumo di piacere, deglutizione, sorriso. Ritorno alla materia tiepida e burrosa dell’inizio.Perché polvere eri e polvere tornerai.Cameriere, cioccolato per tutti. Offre Verbena.




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Trilogia del sesso perduto/3


Milko prende il sole con oculatezza. Dice che potrebbe rovinargli la pelle e per questo usa una cremina for men filtro quindici, ogni giorno. Milko veste solo camicie sagomate, stile Seventy, si depila il torace e adora indossare i braccialetti. Non è forse un maestro di stile, ma è decisamente un gran bell’uomo. Ha pure una moglie attraente e al suo passaggio le ragazzine si voltano a guardarlo. Sembra un tronista. Solo, meno abbronzato.Milko fa un lavoro serio, che richiede prestanza fisica. E per via del mio, di lavoro, mi tocca stargli accanto per molte ore al giorno. Tra noi non c’è mai stato un feeling particolare. In quattro anni che ci conosciamo mai una chiacchierata vera, solo due battute, ogni tanto.Meno di un mese fa, riaccompagnandomi in auto al parcheggio, Milko mi ha esposto la tesi del “trombamico” invitandomi a metterla in pratica. Con lui.Funziona così: se dovessi avere voglia di fare sesso disimpegnato, gioioso, discreto e di ottimo livello, non mi resterebbe che chiamarlo. Milko sostiene di essere stato, e di essere ancora, il rifugio di parecchie amiche, anche di amiche della moglie. Anche la moglie, a sua volta, era una sua “trombamica”, poi trasformatasi in altro, per via del destino cinico e baro.Della teoria del “trombamico” – che circola anche sul web- secondo Milko, esistono due varianti di base: quella che prevede un’attività coordinata e continuativa, gestita tramite sms, e quella saltuaria, occasionale, ma altrettanto soddisfacente.Parlava e parlava Milko (io stavo seduta nel sedile posteriore dell’auto), e descriveva certe sue performance consumate in camere ad ore, studiava le mie reazioni sbirciando dallo specchietto.Io ascoltavo con piglio interessato, come quando memorizzo per bene le prescrizioni del ginecologo. Così lui ha continuato, spiegando che mi potevo anche rifiutare, lì per lì, ma che l’offerta era da considerarsi a lungo termine. “Considerala valida, anche per molto tempo se ritieni. Pure se non ci dovessimo vedere per anni. Se avrai bisogno di un trombamico, io sarò lì”.Silenziosa pausa di riflessione, sua.“Devi solo fare una piccola verifica, se però passa troppo tempo…”, aggiunge.A questo punto si fa serio, un po’ imbarazzato. Sono troppo curiosa, rompo il silenzio.“E quale sarebbe, di grazia?”, gli chiedo.“E’ semplice”, si rianima lui, finalmente certo di essere stato seguito e compreso, nonostante il soliloquio dell’ultimo quarto d’ora.“Basta che ti guardi allo specchio. Se tutto sarà come adesso, dalla testa in giù, allora l’offerta sarà sempre valida”.Altra pausa. Altra frase impacciata, espressione quasi drammatica sul viso ben idratato: “Sai, la carne flaccida, non mi piace”.Su “carne flaccida” non ho retto. E ho reagito come sempre in questi casi: con una risata crassa, dirompente, persino mascolina, che Milko deve avere interpretato a modo suo. Così ha fatto di più. A qualche metro di distanza dal parcheggio ha rallentato. “Facciamo un gioco”, mi dice, mentre mi mostra un sorriso a trentadue denti, bianchissimo. “Adesso scendi, ma poco prima di chiudere la portiera mi guardi negli occhi e mi fai un cenno con la testa: un si, o un no”.Esco dall’auto lentamente. Giù la prima gamba, giù la seconda, sorrido, lo guardo, e faccio oscillare la mia testolina da destra verso sinistra. Poi da sinistra verso destra.“E perché?”, mi fa lui, deluso.“La cellulite ha già fatto il suo corso”, rispondo io, becera.Mi volto e ancheggio con maestria. Perché so che lui sta guardando. Proprio lì.




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Trilogia del sesso perduto/2 Fanculo i vent'anni


In comune non avevamo nulla, a parte i vent’anni. Lui muscoloso e atletico, io lenta e pigra. Lui affascinato dai superuomini di destra, io dalle letture gramsciane. Lui sempre pronto alle lunghe dormite, io alle nottate sui libri, in vista di appassionanti sfide intellettuali che non arrivarono mai.Eppure io e Luca all’Università eravamo inseparabili, infallibili, bravi direi. Laddove si affacciava un eccesso dell’uno era l’altro a temperarlo. I colleghi di corso ci chiamavano la “fantastica coppia”.Io e Luca eravamo molto attratti l’una dall’altra, ma questo era un tasto tabù.Colpa mia.Ero io quella fidanzatissima, ed ero io ad avere costruito un muro tra noi due così alto e spesso, che sarebbe stato impossibile demolirlo per entrambi.Ci fu un pomeriggio nella sua cameretta da studente fuorisede. In due anni fu quella l’unica volta che ci misi piede. Facevo sempre in modo che i nostri tete a tete di studio avvenissero in luoghi rigorosamente neutri, e i suoi maldestri tentativi di organizzare un appuntamento tra quattro mura fallivano sempre. Mi costava, naturalmente. I suoi occhi verdi e il suo sorriso solare erano un attentato quotidiano.I miei vent’anni erano votati alla disciplina. Non lo sapevo a quei tempi, ma ero il perfetto prototipo di Verbena fascista, nonostante mi piccassi di stare dalla parte opposta: fedeltà al puro ideale civico, fedeltà al fidanzato decennale, fedeltà al dovere e allo studio. Sesso sì e volentieri, ma disciplinato dall’ascesi della coppia perfetta.Cosa successe in quella cameretta stretta stretta e zeppa di adesivi del Fuan?Successe che lui ci provò. E che io mi scansai recitando fastidio.Lui tentò di farfugliare qualcosa di sincero, ed io lo interruppi con una risatina isterica.Avevo il cuore in gola e una pericolosa voglia di lasciarmi andare. Ne uscii indenne. L’onore era salvo, ancora una volta.Un giorno, però, ci portò in aula una ragazza. Ingoiai amaro e non feci una piega. Luca divenne un altro Luca. Niente risate infinite, niente giochi, niente cineclub. Solo studio, libretto, voti, medie…Ci laureammo. Ci furono le feste e ci furono gli arrivederci, che in verità erano degli addii.Rividi Luca al funerale militare di una persona a me cara. Faceva parte del picchetto d’onore. Mi vide piangere ma non mi salutò. Gli telefonai. Fu cordiale, ma nulla di più. Tentai un recupero tenero ma mi gelò con una frase di circostanza che voleva dire molte cose.Ci rimasi male. E persino in quel caso pensai che l’onore e la fedeltà, avevano avuto la meglio.Passarono gli anni. Finii per mollare il mio ingessatissimo fidanzato ad un passo dalle nozze.Ogni tanto, quando ripasso da quell’Università, penso alla Verbena che ero.E a quei meravigliosi occhi verdi che quel pomeriggio ho allontanato dai miei.Fanculo l’onore. Fanculo i vent’anni.


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